Intervista a Rob Hopkins per Vivere Sostenibile di Ottobre
A cura di Deborah Rim Moiso e Giovanni Santandrea, Transition Italia – Luglio 2016
Rob, ci piacerebbe cominciare questa intervista celebrando la storia della Transizione e la rapidità con cui le idee si sono sparse nel mondo … il Movimento di Transizione ha una storia che comincia 10 anni fa: oggi ci sono più di 20 hub nazionali, e migliaia di iniziative locali di transizione o ispirate alle stesse idee. Se torniamo indietro con i ricordi al 2006, avresti potuto immaginare una diffusione così rapida delle idee della Transizione? Quali fattori diresti che hanno contribuito al successo e alla rapidità di evoluzione del movimento in tempi relativamente brevi?
A volte le persone immaginano che nel momento in cui abbiamo creato TN (Transition Network) avessimo già un piano preciso e accurato di come si sarebbe potuto diffondere successivamente. Ma non è stato affatto così! Quando abbiamo cominciato a Totnes, non pensavamo che la cosa avrebbe avuto un richiamo qui, figuratevi da altre parti. Abbiamo tenuto il “Grande Lancio” nel 2006, e già in quell’occasione parteciparono altre persone residenti in altri luoghi. Questo succedeva prima della pubblicazione del Manuale, prima della fondazione di TN. Ci hanno stupito dicendoci: “Vogliamo fare la stessa cosa che state facendo qui anche dove viviamo noi”. Nel 2008, quando ho scritto il Manuale, abbiamo fatto una scommessa su quante copie sarebbero state vendute. Io allora dissi al massimo duemila. Alla fine ne ha vendute più di ventisettemila. Insomma, ho perso la scommessa!
Da cosa avete preso ispirazione per i vostri primi passi ?
All’inizio abbiamo progettato, molto e deliberatamente. Eravamo ispirati dal libro di Fritjof Capra “La Rete della Vita”, in particolar modo dall’idea che i sistemi ecologici si auto-organizzano.
Eravamo anche ispirati dal modello di cooperazione in rete attraverso gli strumenti Wiki, che in quel momento andavano molto di moda. Nel 2007 abbiamo creato un libricino: “Chi siamo e cosa facciamo”, in cui abbiamo provato a delineare come noi immaginavamo un processo di cambiamento che avrebbe potuto funzionare.
L’intuizione che avevamo e che volevamo esprimere riguardava proprio l’evitare la necessità di creare un’organizzazione per “gestire” la transizione. Ci sembrava più interessante ed utile creare un’organizzazione che sostenesse la crescita auto-organizzata della transizione.
Quindi un’organizzazione del tutto differente dai movimenti esistenti ?
Sì, certo. Per fare questo era chiaro che la nostra organizzazione avrebbe dovuto prevalentemente avere il ruolo di non trattenere centralmente nessun tipo di potere di controllo su quanto si sarebbe sviluppato nel movimento. Parlavamo della membrana cellulare, di come dentro le cellule i vari elementi possano interagire, crescere, espandersi, la membrana è li per dare un’identità, ma è permeabile. E’ su questo modello che abbiamo immaginato TN. L’abbiamo immaginata come una risposta compassionevole alle sfide di quest’epoca, una risposta che si basasse sulla creazione di una cultura umana sana. E come un approccio che avremmo lasciato andare dove voleva andare.
Quest’anno in Italia ospitiamo la Conferenza Europea di Permacultura, l’EUPC (European Permaculture Convergence). La Transizione nasce dalla progettazione in permacultura, a volte viene presentata come un’applicazione della permacultura sociale, ma a noi sembra che sia un argomento affrontato poco e non nella maniera che merita. Tu che sei progettista in permacultura, hai delle idee da condividere su come funziona la progettazione su scala sociale? In che modo è diverso dal progettare, ad esempio, una fattoria?
Che fattori dovremmo tener presente nel gestire la complessità per progettare sistemi a supporto della vita per le organizzazioni sociali?
Trovo molto interessante questo termine, “permacultura sociale”. Sono coinvolto nel movimento di Permacultura dal 1992. Ho subito avuto la sensazione che anche se “cura delle persone” è una delle tre etiche alla base, la prima generazione di permacultori, composta soprattutto da uomini e in prima battuta da uomini australiani, è stata pervasa da uno spirito di “fare”, quasi uno spirito di frontiera, in cui c’era poco spazio per la riflessione e la cura dei processi. Allo stesso tempo, fin dall’inizio una serie di voci influenti, penso a Starhawk, a Robyn Frances tra le altre, hanno insistito perché fossero inclusi aspetti di cambiamento interiore. Nel movimento di Permacultura tuttavia c’è ancora una qualche forma di resistenza. Invece nella Transizione abbiamo fin dall’inizio progettato per includere il cambiamento interiore in ogni passo, sostenendo che il modo in cui si fanno le cose è altrettanto importante quanto cosa si fa. Se stiamo cercando di creare una cultura umana sana, anche il modo di farlo deve essere diverso da quello adottato fino a qui.
E per la nostra vita personale, quella che a volte chiamiamo “transizione interiore”?
La Transizione presta molta attenzione al tema del burnout, dell’esaurimento. Potremmo dire che in parte la Transizione è anche nata da una sorta di frustrazione verso la Permacultura, dall’emergere di un senso di urgenza verso il tema dei cambiamenti climatici, mentre guardandoci intorno sembrava che molti permacultori si accontentassero di prendersi cura dei propri terreni. Come se ci fosse una resistenza rispetto all’interazione con la società tutto intorno, e quest’attitudine è come una profezia auto-avverante, si parte subito sconfitti. Peraltro dico spesso che la Transizione è un cavallo di Troia per far entrare la Permacultura in ambienti nuovi.
E in specifico per quanto riguarda la progettazione in scala sociale ?
Mi viene da dire che nella Permacultura facciamo molta attenzione all’analisi dei bisogni, ad esempio abbiamo bisogno di tot verdure, tot noci… credo che questo sia un insegnamento per tutto il movimento socio-ambientale, in cui invece non si presta abbastanza attenzione a chiedersi quali siano i bisogni delle persone. Qui nel Regno Unito, il voto della Brexit è una dimostrazione che molte comunità non trovano nel sistema attuale una risposta ai loro bisogni, e quindi sono arrabbiate e frustrate.
Puoi farci un esempio concreto ?
A Totnes abbiamo creato il progetto ATMOS, in cui la comunità locale si sta riprendendo un bene comune, più di tre ettari di zona industriale abbandonata, e la progettazione è interamente basata sui bisogni delle persone. Abbiamo distribuito un questionario a cinquemila persone per raccogliere i loro bisogni. Le comunità locali hanno bisogno di lavoro, di case, di sicurezza economica, e noi sappiamo che la Transizione è in grado di creare lavoro, case e reddito. Dovremmo applicare la progettazione a rispondere a questi bisogni.
La Permacultura è uno dei movimenti affini alla Transizione; un altro è la rete degli ecovillaggi. In Italia sono avviate collaborazioni tra Transition Italia e la RIVE (Rete Italiana Villaggi Ecologici). Tuttavia, a prima vista, la scelta di chi decide di fondare o trasferirsi in un ecovillaggio e quella di chi decide di avviare un’iniziativa di Transizione nel proprio quartiere o paese non sembrano collegate. Hai degli esempi da portare di collaborazione tra ecovillaggi e Transition Towns?
C’è un progetto in Olanda, una delle 21 storie che abbiamo raccolto per la COP21 (https://cop21.transitionnetwork.org/aardehuis–earth–house–project–olst/) in cui un progetto di ecovillaggio ha stretto una collaborazione sinergica con il gruppo di transizione del paese vicino.
L’ecovillaggio portava esempi pratici realizzati, il gruppo di transizione promuoveva queste idee al di fuori, facendo da ripetitore, e portando esperti da fuori, aggiungendo energie nuove. In alcuni sensi sono movimenti divergenti, a volte può sembrare che in un ecovillaggio si crei una bolla separata dal resto, allo stesso tempo in un ecovillaggio i processi di cambiamento sono accelerati, è come un super-laboratorio di tutto quello che vogliamo trasformare nel mondo. Occorre ammettere che solo una piccola parte della popolazione vorrà mai vivere in quel modo, non è molto scalabile. Quindi la sfida della Transizione diventa come portare gli insegnamenti del mondo degli ecovillaggi nei quartieri “normali”.
E’ una prospettiva interessante. Ma come si possono costruire relazioni con persone con cui apparentemente non abbiamo nulla in comune?
L’arte di costruire un terreno comune per il dialogo è la grande sfida di questi tempi. L’impegno è proprio quello di abbattere le barriere e creare conversazioni trasversali, ad ogni livello e in particolare sul piano locale. Per questo ci sono tantissimi insegnamenti sviluppati nel mondo degli ecovillaggi che possono aiutarci.
Ora ci piacerebbe guardare insieme a te all’evoluzione del movimento… da quando è stato sognato, progettato … ad ora che è in azione. In Italia abbiamo trovato grande ispirazione nel Manuale, ma oggi siamo in una fase di “disincanto”, i passi delineati non bastano più e stiamo cercando la “via Italiana alla Transizione”. Visto da Totnes, cosa sta succedendo nell’evoluzione del movimento? Hai un modello di come cambiano le iniziative nel tempo?
Per prima cosa vorrei dirti che nessuno dovrebbe più leggere il manuale, è ormai molto datato.
Nel Transition Companion (per ora non disponibile in italiano. ndr), che è uscito dopo, usiamo già un modello diverso: non appena ci siamo accorti che i 12 passi stavano diventando 12 comandamenti scavati nella pietra, li abbiamo messi in pensione. Ora parliamo di ingredienti, ingredienti con cui ogni comunità locale può creare la sua torta. Alcune cose ci vogliono, sono la base, come “creare un gruppo”, ma poi ogni cultura, ogni territorio porta le sue variabili. Al momento come TN offriamo informazioni e schede di supporto, e raccontiamo sempre che la Transizione è un esperimento, in cui cerchiamo di dare alle persone strumenti per cominciare e insegnamenti tratti da 10 anni di sperimentazione. Il modello è andato ben oltre i 12 passi dell’inizio ed è molto più articolato e dinamico.
Dal tuo osservatorio speciale, Rob, quali sono ora gli orizzonti della Transizione ?
La forma che ha ora la Transizione è quella di un modello dinamico per re-immaginare l’economia locale, portando creatività al modo in cui lo facciamo. Un processo che presta molta attenzione a come i gruppi funzionano, lavorano, progettano, e a come evitare il burnout di coloro che la animano. Ora siamo in uno stadio in cui possiamo argomentare che la Transizione sia una forma di sviluppo economico, una forma di rigenerazione culturale, una potente cassetta degli attrezzi e una delle poche visioni attraenti a sostegno di un futuro che potremmo creare insieme.
Come si può presentare questa evoluzione del messaggio iniziale ?
In questo senso, è stato affascinante seguire la diffusione del film “Demain” (uscita prevista in Italia ad Ottobre 2016, ndr). Il film si apre con due persone che si rendono conto della grandezza della sfida del mondo di oggi. “E non sapevamo cosa fare, allora siamo andati a Totnes a parlare con Rob…” e così comincia il loro viaggio.
In Francia tra i giovani c’è un senso diffuso di impotenza, “non c’è storia, non c’è narrazione, qual è il senso?”. Demain è stata una risposta potente a questo sconforto. E’ uscito 2 settimane dopo gli attacchi di Parigi, un momento in cui era come se il mondo intero fosse privo di senso, e in quel momento Demain ha offerto una storia diversa, visionaria, compassionevole. “Possiamo farlo. Facciamolo”. La Transizione si diffonde così, in modi imprevisti, proprio perché l’abbiamo lasciata andare, e prende radici in maniera inaspettata. Adesso il nostro compito è costruire su questo, continuare a raccontare le storie, e aver fiducia che le persone sono meravigliose, gentili, generose, e hanno a cuore il futuro.
Stiamo chiedendo a diverse persone la loro reazione all’affermazione di Holmgren di tre anni fa, secondo cui una trasformazione pacifica della società è ormai impossibile. Mi ricordo che all’epoca non condividevi il suo punto di vista, e mi sembra che sia ancora così per te, che ci sia speranza nel messaggio.
Ammiro immensamente Holmgren, penso che sia un genio. Però sono profondamente in disaccordo con quello che scrisse in quell’articolo. Penso che l’idea di agire per accelerare il collasso sia irresponsabile, abbiamo bisogno di tutto il tempo possibile per mettere in piedi strutture sociali alternative e parallele. Questo merita tutta la nostra attenzione.
Quando lessi l’articolo a cui fai riferimento, l’ho vissuto come una diserzione dell’immaginazione. Possiamo immaginare meglio.
Cosa ci aiuta a mantenere una visione positiva del futuro… e perché è importante?
Guardando a come vanno le cose nel mondo oggi è facile perdere la speranza. Se guardiamo la campagna presidenziale americana si potrebbe pensare le persone con visioni detestabili abbiano più organizzazione, più chiarezza, più capacità, più connessioni. Ma ci sono tante persone che vogliono che il mondo cambi.
Ciò che raccontiamo con la Transizione è che il cambiamento può avvenire se troviamo un terreno comune, e una buona capacità di “raccontare la storia”. Una visione che possa sostenere la vita e la cultura sul pianeta. La Transizione parla a un desiderio, un anelito, una nostalgia in ciascuno di noi. Tutti desideriamo la sicurezza, la comunità, la famiglia, l’amore. La mia energia viene dal trovarmi in una posizione privilegiata in cui posso raccontare e ascoltare storie di tutto il mondo in cui le persone mi dicono di essere più felici, più connesse, magari non più ricche economicamente ma più ricche di senso, significato, e questo in un momento difficilissimo della storia umana. Amo tutto questo. E’ bellissimo da vedere e testimoniare.
Paul Hawken, l’autore di “Moltitudine inarrestabile”, descrive questo movimento come il sistema immunitario della Terra. Ho la stessa sensazione, di risveglio, di fremito, anche se allo stesso tempo c’è anche qualcosa di orribile e spaventoso che si muove. Ma noi abbiamo una storia migliore possibile, una storia che si rivolge ai nostri desideri più profondi. Ma dobbiamo diventare più bravi a comunicarla alle persone.
Quindi andate, fate cose meravigliose, e raccontate le vostre storie!
Grazie Rob del tempo che hai voluto dedicare ai lettori di Vivere Sostenibile