Copenaghen: chi decide?

Questa è la seconda volta che scrivo questo post, il primo lo ha mangiato WordPress, spero che sia sazio e che lasci passare il messaggio fino a voi… riproviamo.

Dunque, dunque, che ci facevamo tutti imbacuccati in un parcheggio? È storia lunga, ma prova due cose interessanti: che i transizionisti sono abbastanza resilienti e che a Copenaghen stanno veramente riducendo l’uso dell’auto, tanto che i parcheggi pubblici sono vuoti e ci puoi lavorare per due giorni di fila senza grossi problemi (vabbè, su questo godetevi il filmetto fatto dal buon Rob).

E ALLORA CHI DECIDE?

Ci eravamo fatti questa domanda nel post precedente, domanda che nell’attività pratica a Copenaghen aveva la forma di “What is a hub?” (Cos’è un hub?). Come decidiamo che un certo gruppo di persone è davvero un hub nazionale (ad esempio), perché proprio quelle?

In un sistema “tradizionale” la questione viene generalmente risolta con criteri legati alla rappresentanza, rappresentanza che conferisce legittimità a un certo organismo. Diremmo quindi, ad esempio, che se tutte le iniziative di transizione di un certo paese eleggono un gruppo di rappresentanti allora quello diventa l’hub di quel paese.

Ma come abbiamo detto, la democrazia rappresentativa non ci convince molto, ha da tempo mostrato i suoi limiti e ci sono scenari in cui non è nemmeno applicabile (che succede se in quel paese di iniziative di transizione ancora non ce ne sono e sarebbe utile avere un hub per partire dall’imponente lavoro di traduzione necessario? Pensate alle Filippine).

LASCIAMO PERDERE LA RAPPRESENTATIVITA’

Tra il meeting di Lione e quello di Copenaghen abbiamo fatto diversi tentativi di sviluppare un documento che inquadrasse questo problema, tentativi direi miseramente falliti. Non ci è mai venuto fuori qualcosa di convincente. C’è da dire che lavorare per via virtuale non aiuta e che forse non eravamo ancora pronti ad affrontare temi così complessi e articolati.

A Copenaghen invece qualcosa si è mosso, com’era già successo quando si è trattato di inventare un modo per selezionare il “grande orecchio” una delle chiavi per affrontare la situazione è di ristrutturare l’approccio.

WhatIsaHub

Partiamo così: l’hub è un centro risorse al servizio delle iniziative di Transizione in una certa area funzionale. Deve essere una nazione? Non è detto, i confini politici non sono sempre sensati, potrebbe essere quindi una bio-regione, un’area linguistica o altro a seconda dei casi.

Come centro servizi viene naturale pensare che abbia delle funzioni fondamentali e le vedete un po’ elencate nella mappa mentale qui sopra prodotta a Copenaghen (ho lasciato chiuse molte delle articolazioni sennò diventava gigante). L’hub è quindi un organismo bidirezionale, votato da un lato al servizio delle iniziative locali e dall’altro a mantenere le relazioni con tutti gli altri hub in modo da contribuire alla rete di apprendimento continuo che già opera.

Ha inoltre alcune funzioni e diritti speciali. Si fa custode della prospettiva dell’area in cui opera, quindi cerca di ascoltare e raccogliere ciò che emerge. Al contempo custodisce i principi e il DNA di Transition in quell’area, perché anche se spesso sottile, esiste un confine tra ciò che fa parte di questo esperimento che chiamiamo Transition e ciò che è invece “altro”.

Chi naturalmente emerge, riconosce e assume queste funzioni è “quello giusto” (non so se vi ricorda qualcosa). Per aiutare questa focalizzazione, ci saranno una serie di criteri e di piccole regole che potranno essere combinate in varie forme (a seconda dei contesti) che ci aiuteranno a riconoscere un hub in modo più efficace. Una, per fare un esempio, è quella che chi è in un hub debba essere attivo contemporaneamente anche in un’iniziativa locale. Ma se iniziative locali non ce ne sono? Allora si farà riferimento a criteri sussidiari per rispondere a quella particolare situazione.

Abbiamo l’impressione che questo approccio (molto basato su quanto sperimentato fin ora) possa risultare sufficientemente flessibile da adattarsi a una moltitudine di contesti e abbastanza focalizzato da non consentire che qualunque cosa possa essere un hub o la nascita di più hub in conflitto tra loro nella stessa area (sapete come sono gli umani no?).

IL LAVORO DEL PROSSIMO ANNO

Nel corso di quest’anno un il gruppo di lavoro “Organization Co-design” (altra interessante novità di quest’anno) proverà a produrre un documento organizzativo basato su questa idea (se qualcuno vuole dare una mano… si lavora in inglese però). Speriamo quindi di arrivare al prossimo meeting con una definizione più completa e una migliorata capacità di riconoscere nella complessità i nodi fondamentali che sono utili allo sviluppo di un processo.

Accogliere la complessità è infatti una delle sfide più grandi quando si cerca di introdurre il pensiero sistemico nell’attuale struttura culturale. Un limite che determina poi il nostro modo di organizzarci e di gerarchizzare le relazioni. Il limite tra elasticità e caos però ci spaventa, tanto che spesso, quando le cose si mettono male, continuiamo a preferire l’uomo solo al comando rispetto alla complessità del pensiero collettivo (pur sapendo che quest’ultimo funziona meglio).

Quello che mi affascina profondamente nei tentativi che si fanno all’interno del processo di Transizione è che si cerca di trovare, davvero, soluzioni adatte al mondo reale per superare questi blocchi che impediscono l’evoluzione della cultura e della società.

Lo stesso tipo di problema lo ritroviamo ogni giorno nelle nostre attività a livello locale, nella raccolta firme di fronte alla scuola, nella difficoltà di costruire strutture organizzative che superino i confini delle singole associazioni, enti, partiti, ecc.

Vediamo se si riesce a individuare un’altro COME anche per questo, sono fiducioso.