L’ arma inesistente dello Shale Gas USA
Dato che in Italia si va intensificando la campagna mediatica per gonfiare anche in Europa la bolla dello shale gas, ho pensato fosse cosa utile, tradurre gli scarabocchi di un attento osservatore.
Articolo originale in inglese di Kurt Cob su Resource Insight | 9 marzo 2014
L’Ucraina, la Russia e la inesistente “arma” del petrolio e del gas naturale statunitense
I commentatori della scorsa settimana si sono tutti cimentati nell’affermare che, ben lungi dall’essere impotenti nella crisi ucraina, gli Stati Uniti avevano a disposizione un’arma molto efficace: la crescente produzione petrolifera e di gas naturale che, se solo il governo statunitense avesse cambiato le leggi e permesso l’esportazione di questa abbondanza, sarebbe stata in grado di competere sul mercato mondiale e sfidare il predominio russo relativo agli approvvigionamenti energetici ucraini ed europei.
Ma vi è un solo grande problema in questa analisi. Gli Stati Uniti sono ancora un importatore netto, sia di petrolio che di gas naturale. Lo studio economico dell’esportazione del gas verso il Messico e il Canada, che sono entrambi connessi al sistema delle condotture del Nord America, suggerisce che queste esportazioni, nel caso in cui dovessero realmente concretizzarsi, saranno molto limitate. E che non vi è alcuna ragionevole prospettiva che gli Stati Uniti possano mai diventare un esportatore netto di petrolio.
Le importazioni nette statunitensi di petrolio greggio e di derivati petroliferi risultano essere di approssimativamente di 6,4 milioni di barili di petrolio al giorno*. Per comprendere i miei calcoli, fate riferimento ai due commenti che ho fatto in post precedente, qui e qui. I miei numeri si riferiscono a dicembre 2013, l’ultimo mese per il quale sono disponibili le statistiche complete che sono necessarie perchè io possa fare dei calcoli precisi.
La stessa IEA prevede che la produzione statunitense di petrolio greggio (in cui è calcolato anche quella parte definita “lease condensate”) andrà incontro a un picco (del petrolio non convenzionale) verso il 2016 a 9,5 milioni di barili al giorno, giusto poco sotto il picco storico del 1970, per poi declinare a partire dal 2020.
Questo livello è ben sotto il livello dei consumi statunitensi di carburanti liquidi derivati dal petrolio nel 2013 e che è pari a circa 13,2 milioni di barili al giorno.**
Pertanto, quando è che gli Stati Uniti inonderanno il mercato mondiale di petrolio e quindi sfideranno le esportazioni russe? La risposta più plausibile è mai. Il picco previsto della produzione USA è nel 2016 e si fissa a 1,5 milioni di barili giornalieri in più rispetto alla produzione attuale. Questo dato è piuttosto esiguo rispetto alla produzione mondiale che è di 76 milioni di barili al giorno. E non vi è alcuna garanzia che il resto del mondo, tra oggi e quella data, non andrà incontro a un declino della produzione. Tanto più è vero ciò per la supposta arma petrolifera americana che dovrebbe addomesticare l’orso russo.
E per quanto riguarda il gas naturale? Certamente la grande abbondanza americana di shale gas potrebbe sfidare i Russi. Ma non nella pratica. E’ vero che la produzione statunitense è andata crescendo in maniera significativa dopo il suo livello più basso successivo all’uragano Katrina nel 2005. Ma questo trend è attulmente in stallo. La produzione di gas naturale secco statunitense ha un andamento quasi piatto da gennaio 2012. La EIA riporta una produzione totale di 24,06 triliardi di piedi cubi per il 2012 e di 24,28 per il 2013, una crescita di solo lo 0,9% in un anno. Non citato da alcun commentatore tra quelli che parlano del gas naturale statunitense come arma commerciale da opporre alla Russia, è il dato relativo all’importazione USA di gas nel 2013 che è stata di 2,88 triliardi di piedi cubi pari a circa l’11% del consumo degli Stati Uniti. Mi sbaglio quindi nell’affermare che il piano consisterebbe nell’importare di più per poter esportare maggiormente? E questo, cosa cambierebbe nel quadro generale dello stato delle forniture mondiali?
Cosa certa è che il costo ridotto del gas naturale statunitense, ha anche ridotto drasticamente nuove esplorazioni e trivellazioni, ma c’è da aspettarsi che i prezzi saliranno oltre i 6$ per milione di BTU*** e che sarà un trend in crescita: mano a mano che passeranno gli anni, consumato lo shale gas di facile estrazione, rimarranno solo le riserve più costose e difficili da mettere in produzione.
Queste trivelle non entreranno in azione finchè non sarà conveniente estrarre anche queste riserve, e questo richiederà prezzi significativamente maggiori.
E qui casca l’asino. Per arrivare dagli USA, all’Europa e all’Asia, il gas naturale deve essere liquefatto a – 126,66 °C, spedito con speciali navi gasiere e quindi rigassificato. Il costo di questa operazione è di circa 6$ per milione di BTU. Quindi il costo del gas inviato arriverebbe a circa 12$. Con i prezzi del GPL europeo per lo più al di sotto di questo valore negli ultimi 5 anni, è difficile immaginare l’Europa come un mercato praticabile. Potrebbe essere un candidato migliore per un’operazione come questa il Giappone, dove il prezzo del gas negli ultimi 5 anni è oscillato tra 15 e 18$ per milione di BTU. Ma è plausibile che un’entrata degli Stati Uniti nel mercato del GPL, deprimerebbe i prezzi mondiali e renderebbe anche il Giappone una dubbia destinazione per il GPL statunitense. E se i prezzi USA salissero oltre i 6$ ?
Tutto ciò presuppone inoltre che gli Stati Uniti abbiano un eccesso di gas naturale da esportare. Come il mio collega Jeffrey Brown ha segnalato, “Citi Research” (una branca di Citigroup) fissa il tasso di declino della produzione di gas naturale statunitense a circa il 24% annuo, che costringerebbe l’industria estrattiva, solo per mantenere il livello attuale, a rimpiazzare in 4 anni il 100% dell’attuale produzione.
Sembra pertanto che le trivelle USA saranno molto, molto impegnate solo per evitare la flessione produttiva, figuriamoci per sostenere l’esportazione. E ricordiamo che attualmente stiamo ancora importando!
Quante compagnie si azzarderanno veramente a rischiare i miliardi di dollari necessari per costruire i terminali di liquefazione del gas statunitense e prendere in carico un export che potrebbe non materializzarsi mai? Dubito che saranno in molte a prendere realmente ciò in considerazione nei propri piani.
Quello che è veramente sconcertante, è il fatto che tutte le informazioni che ho riportato – eccetto il costo della liquefazione, il trasporto e la rigassificazione del gas naturale – sono disponibili a portata di pochi click di mouse e qualche conto su un foglio di calcolo. Io ho ottenuto i dati sul GPL da un money manager specializzato in investimenti energetici. E quindi, i commentatori e gli autori degli editoriali non si sono neanche preoccupati di controllare le cose su internet o di sentire i loro esperti di investimenti aziendali. Che i fatti siano forse diventati irrilevanti, è la sola cosa che potrebbe spiegare l’attuale baraonda sulla inesistente “arma” del petrolio e del gas naturale statunitense, di fronte a cose evidenti fin troppo ovvie e facilmente verificabili.
Leggi anche Crimea e Russia. Il gas non è la “nuova atomica” degli Usa: essi stessi lo importano
* Questa cifra si colloca tra quella di importazione netta dichiarata ufficialmente dalla U.S. Energy Information Agency di 5,5 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi liquidi e i 7,5 milioni di barili di petrolio greggio importati quotidianamente
*** mmBTU = un milione di BTU = circa 28 metri cubi = circa 1000 mcf | 1 mcf = mille piedi cubici
In effetti è una situazione imbarazzante. Siamo investiti da una montagna di sparate propagandistiche prive di qualsiasi nesso con la realtà.
L’affaire shale gas fa testo a sé: la bolla continua grazie al metano sottoprodotto nelle ricerca di petrolio difficile. Sono riusciti a superare il crack del 2009 con questo stratagemma, ma anche questa mossa dovrà ad un certo punto esaurire i propri effetti. La domanda è quando: chi lo sa è bravo!