Imparare a riprendersi

Visto che si parlava di urgenza per gli interventi di adattamento climatico, pubblico una traduzione realizzata da MrsSant (cercatela su Twitter) di un articolo di Andrew Zolli apparso sul NYT il 2 novembre scorso. Me lo ha gentilmente cinguettato e la ringrazio, mi pare una buona lettura domenicale…

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IMPARARE A RIPRENDERSI IN FRETTA

Per molti anni, le persone che si occupano dei grandi problemi del mondo, argomenti legati tra loro come il degrado ambientale, la povertà, la sicurezza del cibo e i cambiamenti climatici hanno sostenuto tutti insieme la bandiera della “sostenibilità” ossia l’idea che con il giusto mix d’incentivi, sostituzioni di tecnologie e cambiamenti sociali, l’umanità potesse finalmente raggiungere un duraturo equilibrio con il pianeta e tra gli uomini stessi.

E’ un punto di vista molto attraente ed etico, e in un anno in cui si è avuto il mese più caldo mai registrato nella storia degli Stati Uniti (Luglio), la siccità nel Midwest che ha fatto precipitare più di metà del Paese in uno stato di emergenza, un’ondata di caldo nella parte est del Paese così potente da sciogliere l’asfalto sotto i jet in partenza all’aeroporto e infine la devastazione portata dall’uragano Sandy, sembrerebbe anche molto pressante e attuale.

Eppure oggi, proprio perché il mondo è sempre più lontano dall’equilibrio, il concetto di sostenibilità è silenziosamente messo in discussione, non da fuori ma da dentro. Tra un crescente numero di scienziati, innovatori sociali, leaders locali, organizzazioni non governative, benefattori, governi e grandi aziende, sta emergendo una nuova discussione che verte su una nuova idea: la resilienza, ossia come aiutare la popolazione, le organizzazioni e i sistemi vulnerabili a resistere e persino a prosperare in seguito a imprevedibili eventi distruttivi. Laddove la sostenibilità vuole rimettere il mondo in equilibrio, la resilienza esplora i modi in cui gestire un mondo che non è in equilibrio.

E’ un programma molto ampio che da una parte cerca di costruire dentro le nostre comunità, istituzioni e infrastrutture una maggiore flessibilità, intelligenza e capacità di rispondere prontamente a eventi estremi, dall’altra si basa sul sostenere e accentuare le capacità dei singoli di gestire psicologicamente e fisiologicamente circostanze molto stressanti.

Per esempio, il pensare in termini di resilienza sta iniziando a influenzare il modo in cui gli urbanisti nelle grandi città progettano l’ammodernamento di infrastrutture ormai datate, gran parte delle quali sono ancora robuste e resistenti a eventi noti, come ad esempio la rottura di qualche impianto, ma, come è stato dimostrato nella zona di New York, sono fragili in caso di eventi traumatici non previsti, come inondazioni, pandemie, attacchi terroristici o mancanza di energia.

Contrastare questi tipi di devastazioni non significa semplicemente costruire muri più alti, bensì saper accogliere i colpi distruttivi. Per eventi meteorologici estremi, questo vuol dire costruire quel tipo d’infrastrutture che comunemente associamo all’Esercito: ponti temporanei che possano essere gonfiati o posti sui fiumi quando le gallerie sotterrane sono allagate o, ad esempio reti wireless del tipo mesh o microgriglie per l’energia elettrica che possano sostituire i trasformatori fuori uso.

Anche la natura può essere considerata come un’infrastruttura. Lungo il Golfo del Messico, i governanti delle comunità locali hanno iniziato a considerare seriamente l’azione di ripristino delle zone umide che fungono da indispensabile tampone contro gli uragani. La New York del futuro potrebbe essere circondata anch’essa da zone umide proprio come lo era qualche secolo fa.

L’uragano Sandy ha colpito New York più duramente nelle zone in cui si è intervenuto più di recente a recuperare l’esistente: Lower Manhattan, che a rigor di logica avrebbe dovuto essere la zona meno vulnerabile dell’isola. Ma è stata ricostruita per essere “sostenibile” non “resiliente”, sostiene Jonathan Rose, un urbanista.

“Dopo l’undici settembre, Lower Manhattan conteneva il più alto numero di edifici ambientalmente sostenibili, con le relative certificazioni” egli prosegue. “Quella però era una risposta solo a una parte del problema. Gli edifici erano progettati per avere un più basso impatto sull’ambiente, ma non per rispondere agli impatti dell’ambiente” come ad esempio avere un sistema elettrico di riserva.

La mentalità della resilienza invece descrive non solo come gli edifici affrontano le tempeste, ma anche come le persone le affrontano a loro volta. In questo campo gli psicologi, i sociologi e i neuroscienziati stanno man mano scoprendo un ampio spettro di fattori che rendono una persona più o meno resiliente della persona a fianco: l’accesso alla propria rete di conoscenze, la qualità delle relazioni più strette, l’accesso alle risorse, il patrimonio genetico, lo stato di salute, le proprie credenze, opinioni e abitudini.

Sulla base di queste intuizioni, questi ricercatori hanno sviluppato dei regimi di allenamento, profondamente basati su pratiche contemplative che stanno già aiutando gli addetti alla gestione delle emergenze, dei pronto soccorsi e anche i militari a gestire periodi di stress elevato, diminuendo l’intensità e la gravitò dello stress post-traumatico che può seguire. I ricercatori della Emory University hanno dimostrato che pratiche simili possono sostenere e far aumentare la resilienza psicologica e fisiologica dei bambini in affido. Questi strumenti dovranno sempre più diffusi per far si che si possa meglio preparare la popolazione a eventi catastrofici, non solo fisicamente ma anche mentalmente.

C’è poi un terzo grande settore dove ci sarà in futuro molta più resilienza, quello dei servizi mobili e delle banche dati. Già ora, il Servizio di rilevamento geologico degli Stati Uniti sta testando un sistema che connette i propri sismografi a Twitter; quando viene registrato un terremoto, il sistema inizia in automatico a controllare i social media per verificare se ci siano segnalazioni dalle aree colpite riguardo a incendi o altri danni.

Sistemi simili sono stati usati per analizzare quanto pubblicato nei blog e nei siti di news per cercare i primi segnali di pandemie come ad esempio la Sars. Gli attivisti-hackers stanno esplorando i modi per estendere le possibilità del sistema 311 (NB sistema analogo al 911 ma dedicato alle richieste non di emergenza) per aiutare e persone non solo a contattare gli uffici pubblici ma anche a organizzarsi autonomamente tra loro in caso di crisi.

Capovolgendo i nostri stereotipi riguardo al flusso dell’innovazione, molti degli strumenti più importanti per la resilienza arriveranno dai paesi in via di sviluppo, che da tempo hanno dovuto imparare a fare i conti con eventi distruttivi di larga portata e con poche risorse economiche. In Kenya, Kilimo Salama, un programma assicurativo per piccole aziende agricole, usa sensori meteorologici wireless per aiutare i contadini a proteggersi finanziariamente dalla mutevolezza del clima. In India Husky Power Systems converte gli scarti agricoli in elettricità a servizio dei villaggi non collegati alla rete elettrica principale. Un servizio chiamato Ushahidi permette a comunità sparse per tutto il mondo di mettere in comune informazioni tramite i telefoni cellulari in caso di evento di crisi.

Nessuna di queste è una soluzione permanente e nessuna sradica alla base i problemi che affronta. Ma ciascuna contribuisce a far si che una comunità vulnerabile possa contrastare certi shocks che, soprattutto in certi settori sociali marginali, possono essere devastanti. Al posto di grandi disegni generali, questi approcci offrono strumenti e servizi che permettono un maggior auto-affidamento, più cooperazione e creatività prima, durante e dopo una crisi.

Tutto questo suona molto saggio, eppure passare dalla sostenibilità alla resilienza fa sentire molti ambientalisti di vecchio stampo e molti attivisti non a loro agio, dato che puzza un po’ di “adattamento” una parola che è ancora un tabù per molti. Il loro ragionamento è che se ci adattiamo ai cambiamenti anche quelli non desiderabili, è come se esonerassimo i responsabili dei problemi che subiamo dalle loro responsabilità perdendo in questo modo l’autorità morale per far pressione su di loro affinché risolvano tali problemi. E’ meglio, argomentano , mitigare il rischio all’origine.

In un mondo perfetto questo è sicuramente vero, così com’è senz’altro vero che il modo meno costoso per reagire a un evento catastrofico è in primo luogo di prevenirlo. Ma nel mondo reale, persone e popolazioni vulnerabili sono già colpite da caos e distruzioni. Esse hanno bisogno di soluzioni concrete, anche se imperfette, per vedersi garantito un futuro equo.

Sfortunatamente, la politica del movimento della sostenibilità, per non parlare dei suoi metodi di marketing, ha portato a un fraintendimento molto comune: che sia possibile raggiungere uno stato di equilibrio perfetto, come se qualcosa venisse “congelato” in un momento definito. Ma il mondo non funziona in quel modo: esso esiste in costante disequilibrio – provare, fallire, adattarsi imparare ed evolvere in infiniti cicli. Sono proprio i fallimenti, quando ben studiati e compresi, che creano il giusto contesto per apprendere e crescere. Questo è il motivo per cui i posti più resilienti sono, paradossalmente, quelli che hanno di quanto in quanto l’esperienza di un qualche grado di scombussolamento: in essi si trasmette la memoria condivisa che qualcosa di traumatico può accadere.

La mentalità resiliente parte da questo, dandolo per assodato, ed è in conseguenza umile. Non propone per il futuro un unico scenario già delineato nei particolari. Essa assume anzi che non sappiamo di preciso come andranno le cose, che ne saremo sorpresi e che faremo degli errori nel percorso. E’ anche aperta a studiare la straordinaria e così diffusa resilienza del mondo naturale, compresi i suoi abitanti, qualcosa che molti fautori della sostenibilità hanno, contrariamente al senso comune, ignorato.

Ciò non significa che non ci sono dei veri malfattori e delle cattive idee all’opera nel mondo, o che non dovremmo fare alcuna azione per prevenire i rischi. Dobbiamo però anche riconoscere che le guerre di religione contro “i cattivi” non hanno funzionato e non sembra probabile che daranno risultati presto. Al loro posto abbiamo bisogno di approcci che siano allo stesso tempo più pragmatici e più politicamente inclusivi, che ci mettano in grado di muoverci sufficientemente bene sulle onde, invece di tentare di fermare l’oceano.

Articolo originale: Learning to Bounce Back
Autore: Andrew Zolli

Traduzione Italiana: MrsSant (Cecilia)

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