La crescita è finita? Paul Krugman sul New York Times
Ndt: pur restando fedele al paradigma della crescita, Krugman evidenzia alcuni punti importanti; altre osservazioni a margine qui, sul blog di Carpi.
La crescita è finita?
Paul Krugman sul New York Times, 27-12-2012
La maggioranza degli editoriali economici che si leggono sui giornali è centrata sulla corta distanza: gli effetti del “fiscal cliff” sulla ripresa in USA, le difficoltà della zona euro, gli ultimi tentativi giapponesi di spezzare la deflazione. Questo focus è comprensibile, visto che una depressione globale può rovinare la festa a tutti. Ma le nostre traversie attuali passeranno. Cosa sappiamo invece riguardo alle aspettative di prosperità nel lungo termine?
La risposta è: meno di quanto crediamo.
Le proiezioni a lunga scadenza elaborate da organismi ufficiali, come il CBO (Ufficio di bilancio del Congresso), generalmente si basano su due pesanti presupposti. Uno è che la crescita economica nei prossimi decenni sarà comparabile con quella degli ultimi. In particolare, si presume che la produttività – il motore fondamentale della crescita – cresca a un ritmo non molto diverso da quello medio calcolato dagli anni settanta ad oggi. D’altro canto, invece, queste previsioni danno per scontato che le disuguaglianze di reddito, che negli ultimi tre decenni si sono impennate, da qui in avanti aumenteranno solo di poco.
Non è difficile comprendere perché le agenzie accettino queste premesse. Considerato quanto poco sappiamo sulla crescita a lungo termine, assumere banalmente che il futuro somiglierà al passato è una inclinazione naturale. D’altra parte, se le disuguaglianze economiche continuano ad amplificarsi, ci aspetta un futuro distopico, di lotte di classe; non il tipo di futuro che le organizzazioni governative abbiano voglia di considerare.
Eppure questo canone tradizionale ha molte possibilità di rivelarsi errato su una o su entrambe le misure.
Di recente, Robert Gordon della Northwestern University ha suscitato agitazione dichiarando che la crescita economica probabilmente è destinata a rallentare bruscamente; ovvero che l’età della crescita iniziata nel XVIII secolo potrebbe volgersi a conclusione.
Gordon afferma che la nostra perdurante crescita economica non è stata un processo continuo, ma è stata spinta da una serie di “rivoluzioni industriali” distinte, ognuna basata su un particolare gruppo di tecnologie. La prima rivoluzione industriale, centrata in larga parte sul vapore, mosse la crescita tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. La seconda, resa possibile soprattutto dall’applicazione delle tecnologie elettriche, dai motori endotermici e dall’ingegneria chimica, iniziò nel 1870 circa e spinse la crescita fino agli anni ‘60. La terza, basata sulle tecnologie informatiche, distingue la nostra era attuale.
E, come Gordon correttamente sottolinea, i ritorni che finora la terza rivoluzione industriale ha portato, benché tangibili, sono stati molto meno ingenti di quelli della seconda. L’elettrificazione, ad esempio, ha avuto un impatto ben più significativo rispetto a Internet.
È una tesi interessante e un utile controcanto a tutte le celebrazioni entusiastiche dell’ultimissima tecnologia. E anche se io non credo che lui abbia ragione, il modo in cui potrebbe aver torto sovverte ugualmente le visioni tradizionali. Perché la risposta al tecno-pessimismo di Gordon è l’idea che il grande impatto delle tecnologie informatiche stia appena per iniziare e venga dall’introduzione delle macchine intelligenti.
Se seguite il settore, sapete che per decenni il campo dell’intelligenza artificiale ha avuto risultati deludenti, perché per i computer si è rivelato arduo fare cose che risultano banali a qualunque essere umano, come comprendere un normale parlato o riconoscere i diversi oggetti in un’immagine. Ultimamente, tuttavia, le barriere sembrano essere crollate, non perché abbiamo capito come riprodurre la mente umana, ma perché i computer possono fornire risposte equivalenti a un risultato intelligente grazie alla ricerca di pattern in enormi database.
È vero, il riconoscimento del parlato non è ancora impeccabile […] Ma è molto migliore di qualche anno fa ed è ormai divenuto uno strumento seriamente utilizzato. Il riconoscimento visivo è un poco indietro […] ma non è lontano dall’essere usato in una grande quantità di applicazioni di rilevanza economica.
Così, le macchine potrebbero presto eseguire molti compiti che finora hanno richiesto grandi masse di lavoratori umani. Questo comporterà un rapido aumento di produttività e, di conseguenza, una grande crescita economica globale.
Ma – e questa è la domanda cruciale – chi trarrà vantaggio da questa crescita? Sfortunatamente è fin troppo facile supporre che la maggioranza degli americani sarà lasciata indietro, perché le macchine intelligenti finiranno col diminuire il valore del lavoro; incluse le competenze di impiegati qualificati che improvvisamente diventano superflue.
Il punto qui è che ci sono buoni motivi per ritenere che gli approcci tradizionali incorporati nelle previsioni di lunga scadenza, che condizionano quasi ogni aspetto del dibattito politico corrente, siano sbagliati.
Quali sono quindi le implicazioni di questa visione alternativa? Be’, affronterò l’argomento in una prossima puntata.
Una analisi davvero lucida ed interessante retrospettivamente per essere più efficace per il lungo termine, in questo scenario in cui si introduce una ulteriore criticità per la gestione delle iniquità e delle ingiustizie sociali indotta dal governo delle macchine